La lunga strada delle regolarizzazioni è sempre più tortuosa
Sono passati quattro decenni dalla prima regolarizzazione e due decenni da quella più grande avvenuta in Italia, connessa alla legge 189/2002 e non si può non notare come, a distanza di vent’anni, la politica abbia ancora necessità di ricorrere a questo strumento. La gestione delle migrazioni, con i suoi tentativi per bloccare i flussi e “chiudere” le frontiere, ha ridotto per 15 anni le possibilità di ingresso regolare in Italia con una contrazione delle quote (soprattutto quelle per lavoro), ma è stato come barricare l’ingresso principale, avendo dimenticato aperta la porta sul retro. Periodicamente l’Italia si è trovata a dover fare i conti con la realtà dei fatti, ossia con una quota di persone “invisibili”, ma effettivamente presenti sul territorio e lo strumento della regolarizzazione ogni volta ha cercato di “sanare” la situazione senza porre rimedio a ciò che la provoca. Il numero di irregolari diminuisce infatti dopo i provvedimenti di sanatoria, per poi ricrescere negli anni successivi.
L’ultima regolarizzazione prevista dal decreto-legge 34/2020 però ha avuto alcune peculiarità rispetto alle precedenti e, visto il decorrere di 20 anni dalla grande sanatoria, vale la pena operare qualche confronto.
Quella del 2002 si è posta sostanzialmente come emersione del lavoro irregolare, prima rivolgendosi a lavoratori domestici e assistenti familiari, poi estendendo la procedura a tutti i tipi di lavoro subordinato; quella del 2020 ha preso avvio dal settore agricolo messo in crisi dalla mancanza di lavoratori stagionali nel periodo del covid ed è stata ampliata (non senso difficoltà) includendo il settore del lavoro domestico e di cura, ma escludendone molti altri caratterizzati comunque da tassi considerevoli di economia sommersa e lavoro in condizioni di irregolarità.
Nello specifico il provvedimento del 2020 ha previsto due canali di accesso: il primo (comma 1 art. 113 del decreto) consentiva di regolarizzazione la posizione di coloro che, indipendentemente dalla regolarità giuridica, fossero occupati senza un regolare contratto, si tratta quindi di un tentativo di emersione del lavoro nero. Il secondo (disciplinato dal comma 2) riguardava gli stranieri già titolari di un permesso di soggiorno, poi scaduto e non rinnovato dopo il 31/10/2019, con precedenti esperienze nei settori lavorativi interessati, offrendo la possibilità di ottenere un permesso temporaneo della durata di 6 mesi.
Nella prima regolarizzazione del 2002 le istanze presentate furono oltre 700mila, relative a 693.937 lavoratori e diedero luogo a 641.638 permessi di soggiorno (92% di risposte positive); l’esame delle domande presentate nel 2003 si concluse nei primi mesi del 2004.
In quest’ultima regolarizzazione le istanze presentate sono state circa 220mila, di cui 207.542 (comma 1) per emersione di lavoro nero e 12.986 per richiesta di permesso di soggiorno temporaneo (comma 2). Dopo due anni e mezzo, a dicembre 2022, ancora il 20% delle istanze deve essere processato; la quota di permessi di soggiorno rilasciati al momento è del 61%, le istanze rigettate e le rinunce ammontano al 16%. Presumibilmente al termine della procedura gli immigrati che avranno regolarizzato la loro posizione saranno 7 su 10 di quelli che hanno presentato domanda.
In Liguria cosa è successo?
Rispetto alla media nazionale possiamo dire che in Liguria siamo messi meglio in quanto a macchina amministrativa, visto che la quota di istanze processate è arrivata al 96%. Complessivamente sono pervenute 4.805 istanze, di cui la metà (2.512) in provincia di Genova e a seguire 907 nell’imperiese, 883 nel savonese e 503 nella provincia spezzina.
A fine 2021 erano 1.727 i permessi di soggiorno rilasciati in seguito alla regolarizzazione, a cui se ne sono aggiunti altri 2.000 nel corso del 2022 e presumibilmente se ne aggiungeranno altri 200 circa nel corso del 2023.
Sono prevalentemente persone impiegate nel lavoro domestico, visto che il 93% delle domande ha riguardato questo settore lavorativo, con alcune importanti differenze tra le quattro province liguri in base alle caratteristiche del settore produttivo: la quota di emersione legata al lavoro agricolo infatti più elevata nelle province di Imperia (18,9% delle domande di regolarizzazione) e Savona (11,8%) e irrisoria nelle altre province (La Spezia 4,4% e Genova 1,0%).
Considerata la percentuale di risposte positive complessivamente questo provvedimento ha contribuito a “sanare” la posizione di quasi 4 mila lavoratori in tutta la regione, non pochi a dire il vero, ma sufficienti rispetto all’esistente?
Nel misurare l’invisibile ovviamente occorre sempre molta prudenza. L’Istat si è dotata da diversi anni di strumenti per valutare l’economia non osservata (la cosiddetta NOE a livello internazionale) di cui fa parte anche il sommerso, cioè quello che comunemente chiamiamo “lavoro nero”. Senza entrare eccessivamente in calcoli tecnici possiamo incrociare i dati sull’occupazione dell’indagine forze lavoro con quelli dei conti nazionali dell’Istat per ricavare qualche stima di massima dai numeri a nostra disposizione. Considerato il tasso di irregolarità in agricoltura (24,2% in Italia e 10,9% in Liguria) e considerato il tasso di irregolarità nel comparto del lavoro domestico e di cura (51,7% in Italia, dato non disponibile per la Liguria) e presupponendo che italiani e stranieri abbiano gli stessi tassi di irregolarità nel mondo del lavoro (anche se sappiamo che per i secondi le condizioni di lavoro sono generalmente peggiori) possiamo conteggiare circa posizioni lavorative 27mila irregolari in Liguria, di cui 16mila a carico di lavoratori stranieri. E stiamo considerando solo l’agricoltura e il lavoro domestico.
Nei numeri quindi si è trattato di un provvedimento con effetti limitati sul piano dell’emersione da lavoro irregolare, perché a grandi linee si può dire che ha raggiunto 1 lavoratore su 4 dei possibili interessati. Del resto il limite di questa regolarizzazione, come molte delle precedenti, è quello di essere basata sostanzialmente sulla volontà del datore di lavoro, spetta a lui la decisione di usufruire del provvedimento e, in sostanza, tutto ciò lascia intaccata quella bolla di vulnerabilità e quindi di ricattabilità del lavoratore straniero, soprattutto quando privo di un permesso di soggiorno. Quand’anche vi fosse stato un datore di lavoro ben disposto a mettere in regola il proprio lavoratore, avrebbe dovuto superare una serie di strettoie e limitazioni previste dalle norma, che hanno reso particolarmente complessa la procedura.
Va infine citato il canale del comma 2, ossia la possibilità di richiedere un permesso di soggiorno della durata di 6 mesi: i numeri sono stati esigui in Liguria come nel resto d’Italia. Complessivamente sono state 168 le istanze presentate in tutta la regione, di cui 59 in provincia di Genova, 50 in quella di Imperia, 44 a La Spezia e 15 in provincia di Savona. Numeri veramente irrisori rispetto ad una presenza di migranti irregolari che si aggira tra i 10 e i 15mila, considerando il valore nazionale fornito dall’ISMU che parla di 506mila irregolari in Italia e proporzionandolo rispetto alla quota di presenza straniera in regione.
Se la regolarizzazione del 2002 viene ricordata come la grande sanatoria per i numeri che ha raggiunto, questa del 2020 sarà ricordata come quella del grande ritardo per la tempistica prolungata che l’ha caratterizzata, ancor più illogica se si pensa che il provvedimento era nato durante il periodo covid, formalmente per regolarizzare migliaia di persone e consentire loro l’accesso all’assistenza sanitaria, con beneficio dell’intera società. La pandemia è alle spalle e non ci resta che sperare che i nuovi decreti flussi aprano una nuova stagione dove il ricorso alle sanatorie non sia più necessario.
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